Nostradamus a Rennes-les-Bains
Martedì 26 ottobre 2010 by Liz Greene
Traduzione a cura di Ivan Talloru delle pagine 56-60 (nell’edizione Corgi 1982) del romanzo di Liz Greene The Dreamer of the Vine (1980). Sorella di Richard Leigh e all’epoca fidanzata di Michael Baigent, in questo romanzo la Greene anticipò di due anni le rivelazioni sulla dinastia del Sang Real.
Sapevo, che prima o poi, sarei partito da Carcassonne. Stava cominciando ad essermi sempre più chiaro che avrei conseguito il dottorato, se avessi ricevuto un giusto trattamento da parte dei miei colleghi; tutto era nelle loro mani. Monsignor de Foix capiva molto bene le ambizioni che guidavano il mio spirito, e mi promise che non avrei lasciato Carcassonne senza una considerevole somma d’oro; ciò mi avrebbe aiutato a seguire la mia strada con maggior facilità. Poi, un giorno, mi fece una proposta curiosa.
«Tra pochi giorni», mi disse una sera, mentre eravamo seduti nel suo studio a sorseggiare del vino, «farò una gita a sud di Rennes-les-Bains per visitare un amico. E’ solo ad un giorno di mulo da qui. Volete accompagnarmi?».
Conoscendo il mio amico, uomo di grande sottigliezza e arguzia, accettai l’invito.
Alloggiammo con il cameriere e la servitù in un piccolo alberghetto a Rennes-les-Bains, dove le sorgenti naturali si diceva possedessero miracolosi poteri di guarigione. Mentre il vescovo si recava in visita da un uomo del villaggio, decisi di esplorare la campagna a dorso d’asino. L’atmosfera era tesa. Le montagne cingevano la valle, e su una di queste si stagliavano contro il cielo d’autunno le rovine fortificate di un’antica precettoria del Tempio, solitaria, minacciosa, ma allo stesso tempo magica.
Questa terra racchiudeva nel ventre molti strani ricordi. Memorie di Templari e Catari, il cui sangue fertilizzò il suolo; lo stesso suolo continuava a sanguinare, come una grande ferita aperta. Si poteva avvertire la presenza di fantasmi che ti sfioravano alle spalle anche in un freddo pomeriggio soleggiato. Mi sentivo a disagio, e decisi di tornare al villaggio con la mia cavalcatura.
Il vescovo si mostrò interessato alle mie impressioni sulla campagna. «Così», mi disse con fare divertito, mentre uno strano bagliore attraversava i suoi begli occhi scuri, «siete riuscito ad udire gli spiriti della morte. Ebbene sì! Questi luoghi ne sono pieni. Se volete, potete visitare Montségur, dove i Catari subirono l’ultimo fatale assedio prima del massacro. Si può sentire ancora l’odore acre del loro sangue, e le montagne stesse ne piangono la sorte. Avete una speciale sensibilità, tipica della vostra stirpe, Michel de Notredame! Spero che i vostri sogni non siano turbati stanotte». Cominciò tutto da qui. Mi rassicurai, pensando che non fosse possibile che quest’uomo conoscesse i miei futuri sogni. Stava semplicemente ironizzando sulle mie paure, tipicamente femminili. Monsignor de Foix stette per un po’ in silenzio, poi disse: «A mezzanotte scoccherà il 13 ottobre. Non vi dice niente questa data?». Scrollai la testa. Non ricordavo nessuna festività particolare associata ad alcun santo. «E’ il giorno in cui Filippo il Bello occupò le precettorie del Tempio, catturò i Templari, e li imprigionò, torturandoli e condannandoli al rogo per i crimini di sodomia, blasfemia e culto del Diavolo. Stranamente alcuni di questi cavalieri, per l’esattezza cinquecento, forti quanto l’intero esercito del Re di Francia, andarono spontaneamente incontro al sacrificio, come se già conoscessero e accettassero la triste sorte che li attendeva. Lo stesso fecero i Catari, che scesero dalla vetta di Montségur mano nella mano cantando, gettandosi poi tra le fiamme».
Le sue parole mi riempivano di disagio. C’era qualcosa di nascosto in quei luoghi. Qualcosa che non riesco a comprendere. Sentii un leggero brivido avvolgermi le membra. Cominciai ad augurarmi di non tornar più a Rennes-les-Bains.
Eravamo in piedi fuori dall’alberghetto a prendere una boccata d’aria dopo cena. Il sole, prossimo al tramonto, solcava il cielo con i suoi colori di sangue e di fumo; le vette montane si profilavano davanti ai miei occhi come antichi animali, avvolti in un caldo torpore, pronti a destarsi all’improvviso.
«Solo una precettoria fu risparmiata» disse il vescovo. «Guarda oltre quelle cime, verso sud-ovest, contro luce. La puoi vedere. Si chiama Bezu. Il comandante, era un uomo chiamato de Goth, della famiglia dei Blanchefort. Era cugino del Papa Clemente. Può questo vincolo di sangue aver salvato questi Templari dagli uomini del Re? O Bezu conteneva un tale segreto che neanche il Papa osò violare? Rimane un mistero».
Guardai all’orizzonte, e vidi gli spalti e le torri merlate. Gli detti solo un’occhiata quel giorno. Mi parve distrutto e frastagliato, come un grosso dente marcio sogghignante contro la profondità del cielo. Il tramonto portò con sé nuvole violacee, mentre una brezza gelida saliva dalle viscere della terra. Una nebbiolina, simile al vapore, avvolgeva l’ambiente intorno, il felceto ed i campi, velando i piedi della montagna in un drappo funereo. Desiderai ardentemente una compagnia umana, il calore amico del fuoco.
«Sto andando a scalare il Bezu», disse Monsignor Ammanien de Foix. «Conto di oltrepassarne le mura per mezzanotte».
Non dissi niente. Fissavo il suo vigoroso e carnoso volto dominare il mio disagio, che si stava trasformando in una rosicante paura.
«Chi scalerà l’antica fortezza, nell’anniversario della caduta del Tempio, avrà il privilegio di esser testimone di un miracolo», disse il vescovo. «I Templari della fortezza possedevano una piccola campana d’argento. In quei giorni terribili, in cui vedevano prossima la cattura, gettarono la campana in un crepaccio sotto le mura. La leggenda, narra che a mezzanotte, il giorno della caduta dell’Ordine, la campana ricomincerà a suonare, e le sue dolci note saranno accompagnate dal vento per le montagne. Se un uomo coraggioso e deciso, si reca sulla vetta ed attende l’ora, può vedere prendere forma i fantasmi dei Cavalieri, bianchi e luminosi, con una gran croce rossa sul petto. Potrà sentire una voce profonda dall’oltretomba piangere e domandare “Chi ricostituirà il Tempio?”, ed un coro di teste morte, parlanti, rispondere tre volte, all’unisono “Nessuno. Nessuno. Nessuno. Il Tempio è stato distrutto”».
Rimasi in attesa, mentre il sudore scorreva freddo sulla mia schiena. Sapevo cosa stava per dire.
Consideravo una fortuna il fatto di avere come mecenate Monsignor Ammanien de Foix, vescovo di Carcassonne, ma quando mi disse «Vorrei che mi accompagnaste», scossi il capo con veemenza.
«Non posso, Monsignore. Mi dispiace. Questi luoghi mi mettono a disagio. Sono intrisi di stranezze; si sentono sussurri di morte. Da queste parti c’è qualche segreto nascosto. Mi perdoni se sembro infantile, o preda di umori tipicamente femminili, ma non desidero ascoltare il suono della campana d’argento, e nemmeno vedere forme evanescenti di Cavalieri morti. Non ho alcun dubbio che continuino a camminare per la montagna, non c’è bisogno che insistiate per convincermi di questo».
«Non è per convincervi che ve lo sto chiedendo, Michel de Notredame. Voi avete una sensibilità tale da intuire molto più di ciò su cui riuscite a ragionare. Potreste incontrare lungo il cammino qualcosa di importante per voi».
«Tutto questo non ha alcun interesse per me», dissi con tono deciso. «Non ho niente a che vedere con il passato di questi luoghi. Sono solo uno studente di medicina, che cerca di trovare la propria strada. Vi prego di non insistere, ho paura da morire».
«Vi assicuro che non vi accadrà nulla di male».
Alla fine l’ebbe vinta lui. Forse per la sua cortese insistenza. Forse, perché non volevo apparire come un codardo. In quei giorni non ero una persona facile da convincere a fare qualcosa contro la sua volontà. E mentre stavo ancora cercando una scusa per evitare la spedizione, mi ritrovai sulla parete rocciosa della montagna di Bezu, arrampicato con le mani e le ginocchia. Di fronte a me, la sagoma nera del vescovo si muoveva leggera, come una capra di montagna,
un’ombra contro l’ombra del dirupo. Scalava rapido, nonostante la sua mole. Alla fine, le antiche mura ci cingevano attorno. In mezzo, le rovine solitarie della fortezza sventrata: un calice aperto verso il cielo. Ci sedemmo, e dividemmo il vino che aveva portato con sé. Sopra di noi, una scia di nuvole passarono separate dinanzi alla luna, come se il paradiso ci sorridesse con gli occhi.
Il freddo cominciava a farsi sentire. Mi avvolsi con un mantello, mentre i miei denti cominciarono a sbattere. Era molto tardi. Sentii il lieve tintinnio della campana della chiesa del villaggio sottostante suonare le undici. Il vescovo rimase in silenzio. Me lo immaginavo come il membro di un oscuro conclave fatto d’ombre, dietro le mura. Solo l’esangue cielo stellato illuminava il suo volto pallido. Gli occhi ricordavano opache pozzanghere nell’oscurità. Cominciavo a capire perché non desiderasse parlare. Come una litania, ripetei a me stesso che si trattava solamente di una passeggiata notturna, e che il vescovo era una persona estremamente eccentrica, con un certo gusto per le storie di fantasmi.
Mi sembrò di esserne rassicurato; ma alcuni brandelli di fantasie continuarono ad aggrapparsi ai miei sensi acuti e vigili, con dita fragili ma intense allo stesso tempo.
Mi ripetei che le campane d’argento, per quanto sacre, non avrebbero potuto suonare dal profondo della terra. Il vento si alzò, sferzante, con un sibilo acuto. Nel cielo, fuggenti nuvole eclissavano le stelle. Mi sentivo rapito, svuotato di qualunque emozione. Il giorno seguente, le emozioni le trovai nei palmi delle mani, completamente feriti, fino alla carne.
La brezza calò. Una volta ancora udii il rintocco della campana del villaggio, inghiottito nel silenzio della notte.
Monsignor de Foix mi fece segno di non parlare, mi prese per il gomito e mi aiutò a salire. Non saprò mai se quello che sentii era reale, o se fu soltanto frutto delle mie paure. Da qualche parte, così debole da sembrare il rumore del vento, si levò un suono scarno e fioco, una dolce nota impalpabile come il vento.
Non riuscivo a far niente. Mi gettai sulla fredda terra tra le mura cadute, e mi coprii le orecchie con le mani. Stavo tremando dalla paura.
Dopo un po’, sentii le mani del vescovo poggiarsi dolcemente su di me, mentre i suoi grandi occhi scuri mi fissavano con triste compassione. La quiete ci avvolgeva adesso, come in uno spesso bozzolo. Non potevo e non volevo sentire più nulla. Era solo un vecchio rudere in cima ad una montagna.
Non parlammo più, e in silenzio cominciammo la discesa. Si rivolse a me solo prima di ritirarsi in camera. Mi mise una mano sulla spalla, avvolgendomi con uno sguardo triste.
«Forse, ho sbagliato il momento. Era troppo presto».
Quell’esperienza mi colpì profondamente. Non dormii tutta notte, tormentato com’ero da un incubo. Mi trovavo in un grande bosco, dove antiche querce erano riunite come cospiratori, nascoste alla luce. Ebbi la sensazione immediata, come per istinto, di trovarmi in un luogo sacro. Un bosco sacro agli spiriti degli alberi, che mi pressavano, come fossi un intruso. Sopra i rami s’intravvedeva, come una miriade di mani intrecciate, la navata di un’oscura cattedrale di corteccia. M’inginocchiai al suolo, e chinai il capo in segno d’omaggio alla terra. Non sapevo di quale posto si trattasse.
Riconobbi un antico potere in quel luogo, un potere che non apparteneva al Dio dei Cristiani. Quando mi sollevai, vidi arrivare a cavallo il re senza nome, bardato di una tunica damascata striata di bianco, ed una corona d’oro sul capo. La folta chioma scivolava sulle spalle, divisa da una sottile scriminatura; un volto aspro, vuoto e pallido, faceva da contorno ad un paio d’occhi di un blu profondo, sotto una fronte finemente cesellata. Era assistito da cinque uomini armati, ed un aiutante lo aiutò a scendere da cavallo, accompagnandolo sotto un grande albero a riposare. Appoggiò la schiena contro il fusto grande e nodoso della quercia, ormai attorcigliato e ispessito dai secoli. Chiuse gli occhi stanchi, mentre l’aiutante portava il vino in grossi calici intagliati di cristallo di rocca, luccicanti di una pallida e lattea luminescenza, nell’oscurità verde. I soldati, stanchi anch’essi, si apprestarono a dormire.
Poi, mentre il Re era assopito, vidi il servo estrarre una lunga lancia, e avvicinarsi furtivamente al suo maestro. Sebbene desiderassi urlare, per avvisare del pericolo, come paralizzato non riuscii a muovermi, e nessun suono uscì dalle mie labbra. Con gesto fulmineo, la lancia si conficcò con forza nell’occhio destro del Re. Sangue rosso sprizzò come vino appena spillato sulla bianca tunica, sgorgando nel calice, e ribollendo nella terra nera. Una terribile collera prese gli antichi alberi, come se una tempesta si scatenasse tra loro, pronta a distruggerli. Alla fine scoppiai in lacrime, e mi svegliai, agitandomi nell’oscurità, non sapendo dove fossi. Ricordai il terrore che mi prese in cima alla montagna, e il suono evanescente della campana. Strisciai fuori dal letto, e accesa una candela, rimasi seduto in uno stato confusionale sino all’alba.
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